Marcello Scurria, che ringrazio, scrive sul mio libro “Sillabe nel Vento” Ed. Simposium 2012, e sul mio saggio sulla poesia dal titolo “La parola al silenzio”.

“1) Ho un vuoto da colmare… Più che vuoto è un autentico onomatopeico visto con gli occhi ergonomici della mia mente. In fondo, ho soltanto da dire-scrivere l’idea che sintatticamente possa allinearsi alla sequenza di versi che interpreto o magari metabolizzo durante la lettura di Sillabe nel Vento ed. Simposium dell’autrice Giovanna Fileccia. Scrivo di getto su WhatsApp intorno alle sette a.m. e dopo l’invio, Giovanna “spunta”; cioè, mi legge. Invero, mi sembra di scrivere commenti apprezzabili. Ci tengo a fare bella figura.
Non rischio paralleli con la musica jazz che a volte scuote le interiora fino a raggiungere profondità infernali. Francesco Cafiso (Vittoria 24 maggio 1989), sassofonista jazz di fama mondiale laureato in flauto traverso al conservatorio di Messina, cambia stile e tempi durante l’esecuzione fino a distruggere le armonie dell’ensemble orchestrale, precipitando improvvisamente insieme all’orchestra che include anche l’Arpa al passo dei pentagrammi, dal tepore della generale intonazione a un assurdo atonale e raggelante per me, (così mi sembra) furioso.
Cosa che non succede con i versi poetici della Fileccia che cavalcano la cresta dell’onda tenendo alto lo sguardo sugli orizzonti (non sempre) visionari che dovrebbero configurarsi in strutture significanti le allegorie fatali, le storie di vita vissuta, il transfert di memi esistenziali, l’astrattismo di molte allegorie che risolvono in chiose efficaci, i sentimenti ossificati da buoni a disillusi e le metafore controcorrente, esempi di libero arbitrio.
Tuttavia, l’unico accostamento possibile con il jazz è il tema musicale con i titoli delle “poesie sculturate” che giocano coi termini picconando la comprensione del lettore e a volte la creatività, piuttosto che l’invenzione di neologismi in analogia con l’improvvisazione jazzistica.
Sono certo che poesia e musica jazz implicano rispettivamente prosodie più rigide e interpretazioni più eccentriche. Il Jazz più che costruire, amalgama alchimie. La versificazione di Giovanna Fileccia, invece, vuole affascinare, vuole coinvolgere come uno sguardo al microscopio i recettori accesi dai termini scelti e intelligibili oltre l’astrazione del termine “sculturato” … Che quasi sempre non è la parola, bensì incarna la staticità del contesto. La Fileccia va studiata altrimenti non si intende la forma che la poesia configura in sé: uno sgomento; una sorpresa; una fatalità; un dolore; un affetto familiare. In definitiva, si configurano sguardi, smorfie, lacrime, sorrisi, compassione; eccetera. Le maschere non sono maschere, sono verità. È questo il genio che mi convince. Giovanna Fileccia non danza neanche se veleggia perché lei invece remiga, la sua prospettiva è uno sguardo dall’alto.
Per cui, mi sono chiesto, fin dove si estende l’astrazione di Giovanna Fileccia prima che coincida con una parola da condividere nel significato di una invenzione apollinea che chiama “sculturata” che può non esistere poiché incarna una astrazione logicamente interagente con le altre del verso o dei versi in cerca di comprendonio? Ciò la consacra una poetessa anarchica di mente e corpo, jazzista sul palcoscenico della vita emozionale, eterea, volubile, immaginifica, vulnerabile e innamorata di sé e della vita in sé, che conferma [l’essenza] l’appartenenza al genere umano che altrimenti risolverebbe nella totale incomprensione, come un extraterrestre di fronte a un cartello stradale inventato per gli umani è incomprensibile all’alieno, malgrado la suta assoluta semplicità grafica. Giovanna Fleccia fa bene a parlare di “baricentro”… E si chiede dove risiede la pulsione del poeta, se la poesia è di per sé una entità intelligibile sebbene esista per compensare i vuoti dell’anima e i desideri insoddisfatti.
2) Cos’è l’equilibrio se non un punto di congiunzione tra la terra e il cielo?
Mettere il dito in tutte le pieghe-piaghe di tutte le religioni; questo per me significa equilibrio, dato che proprio le religioni vietano di viverlo, di assaporarlo nella sua sobrietà e perfezione che è il mestiere della natura, fare vita e facendola renderla bella. Equilibrio e bellezza sono come le due gocce d’acqua che scivolando sul vetro, si scontrano e diventano una. Invece, le religioni esautorano la Natura della forza solare, della cosmicità delle sue leggi che preferiscono la stabilità alla instabilità, la probabilità alla improbabilità, la qualità alla quantità. Che in altre parole si può dire “pur apparendo caotica la natura rivela invece forme assai sofisticate di organizzazione”, e stringendo ancora di più il broccardo di interazioni logiche suggerite da questo periodare, la natura risolve nell’equilibrio di tutto ciò che crea, detto Omeostasi. La vediamo in Monet; la misuriamo in Le Corbusier; la leggiamo nel mito della verità che esce dal pozzo “sculturata” come l’ha interpretata e sottesa Jean-Léon Gérôme.
Giovanna Fileccia cerca l’equilibrio tra le cose che scrive temendo che le sue sculture immaginifiche possano sgraziarsi, deformarsi in latenti isomorfismi. Scrive senza comporre gli elementi della termodinamica cognitiva ben chiara nella sua mente sotto forma di “essenza”. Essenza è il sinonimo di bellezza dell’anima nel suo corpo, ognuno con la sua materia, e quello di Fileccia si avvolge attorno a lei per non farla scappare, per non farla inquinare dagli elementi esterni che non la rispecchiano, anzi, non possono incarnare realtà parallele che non convergono verso il suo “epicentro”. La termodinamica cognitiva di Giovanna Fileccia infatti, include l’annichilimento dell’energia di guisa che non diverrà materia.
3) È vero che l’imperfezione è necessaria, che è proprio dall’errore che nasce la scommessa che sbriciola l’assioma di una precedente certezza, perché nell’amore per la vita e quindi per la verità, Giovanna Fleccia trova il conforto dei buoni, di anime che sanno emozionarsi e sognare. C’è molto Pablo Neruda e Marta Medeiros in queste oscillazioni tra bene e indecisione (Oddio! Com’è possibile! Nessun diavolo!) che stigmatizzano la vita migliore affermata nel libero arbitrio dell’umanesimo se e solo se l’umanesimo è lo stile di vita che ci distingue. Infatti, la regola in amore è che non ci sono regole ma verità: Scrivere fortifica: è un processo comune a chi, come noi, incide su carta le emozioni più profonde. E, scrivendo, affiorano sentimenti che appartengono a ognuno/ciascuno di noi. Ed io, me medesimo che leggo, mi chiedo senza provare ad impazzire, che differenza allerta la mente e il corpo della poetessa quando distingue “ognuno” da “ciascuno”. Siamo “ognuni” (è subito chiara l’allusione alla sicilianitudine) o siamo ciascuni? L’autrice dovrebbe impersonare una “ciascuna”, ma è difficile individuare il punto di biforcazione.
4) Il fatto, è che la parola è la specula del termine-significato (ho aggiunto “termine” perché le parole corroborano e concorrono alla comprensione tramite i loro sinonimi), che la logica riflette nella costruzione sintattica, che le regole grammaticali servono a configurare il sistema complesso e flessibile (gli incisi, i caporali, le citazioni) che coopta termine-sintassi-grammatica risolvendo in una conclusione intelligibile. Praticamente, un ensemble sia specifico, sia olistico: non il verso, bensì la poesia e quindi anche la silloge. Come sa chi legge e studia – non è detto che “Chi legge” debba altrettanto scrivere – è olistico il concetto trasmesso, il messaggio recepito non letterale sebbene l’interpretazione estensiva non ha regole diverse da quelle che interpretano letteralmente. Ovvero, per chiarire pragmaticamente l’idea, la soluzione letterale esclude una interpretazione ontologica. Delle due, l’una.
L’ interazione con l’altro include la retorica che di fatto è una discriminante dell’interpretazione letterale che per caratteristiche proprie esclude il giudizio e nientepopodimeno che il libero arbitrio, la capacità di interagire con il mondo esterno: che sia lettura, dialogo, sguardo, verbalità, analisi, poco importa, il libero arbitrio incarna la libertà “da” e afferma la libertà “di”.
Quindi, è l’intelligenza a svolgere il ruolo principale, e quest’ultima è una fioritura data dalla semina di cultura, dall’interesse personale a curiosare e, fortuna loro, metabolizzare le molte informazioni secondate, uscite, nate dalle teorie vitaliste e dalle condizioni iniziali che sviluppano procedure per esistere. Certo, possiamo fare una sintesi delle procedure, beato chi ci riesce, ma il fatto importante è che il significante si mantiene, il senso non viene traviato. C’è chi lo chiama isomorfismo, cioè la trasformazione mantiene l’informazione; e subodoro che questo concetto sia inadatto alla “poesia sculturata” di Giovanna Fileccia, dato che l’ottica isomorfica genera anomalie. Lei non ci sta a correggere una definizione dato che per l’autrice la definizione non è una frase, bensì una immagine. In altre parole, se decidiamo di capire Sillabe nel Vento senza considerare l’introspezione esistenziale e le conseguenze che ne derivano in quanto filologicamente filecciane, allora non siamo degni di lei.
Per cui, sono perfettamente d’accordo con queste teorie: bisogna saper parlare. Io lo faccio con l’intenzione specifica di farmi capire, e come la parusia suggerisce, non sempre ci si riesce completamente data la possibilità che l’ascoltatore sia ignorante oppure sia intenzionalmente insidioso, dissimulando la sua attenzione che di fatto è disinteresse non dichiarato. Ma non è tutto; nel senso, che le espressioni facciali, la mostra corporea, i gesti, il tono della voce, in definitiva il significante immette nel giogo di una comprensione complessa che non è sinonimo di complicazione, bensì di trasfigurazione identificante. Cioè, essere come. Ovverosia, secondo la teoria della sculturabilità “ciascuno” che non è “ognuno” è libero di confutar(si) analogo, identico, omologo oppure riflesso.
La bellezza, per esempio è una qualità assunta in virtù della complessità delle interazioni di energia e materia elementi che da sole si annichilirebbero nel nulla, ma che intrecciando le loro intrinseche caratteristiche producono realtà bella e buona. Dio, quello delle leggi di natura e non delle religioni, ha l’esclusiva di farle belle, armoniose, in equilibrio con gli habitat. “Dio, come dico io, è l’insieme di tutte le cose costituendone uno a sé stante perché interdetto agli uomini”. È facile capire che la dualità Dio/Uomo afferma la preferenza alle leggi di natura che sono perfette anziché all’uomo che per essere un anti-dio s’è inventato il diavolo che fa le cose cattive. In natura, il diavolo non esiste; se vuoi un nemico basta inventarlo, e quest’ultima è una esclusiva dell’uomo e non delle leggi di natura, le quali, ammessa una distopia e un disequilibrio si scambiano le informazioni necessarie per giungere alla completa omeostasi finale. C’è un episodio, direi un aneddoto ormai, molto interessante che riguarda lo scrittore Elias Canetti. Ma riguarda anche “Sfinterella” un personaggio del mio ultimo romanzo Come Nuovo Al Megiste, che proprio ieri disse: tu mi hai detto di spegnere l’acqua. Elias Canetti coinvolto nella evidente incompatibilità tra chiudere un rubinetto e spegnere un’acqua, prese un’accetta dal muro per inseguire la cugina che aveva usato parole sbagliate per esprimere un concetto che esigeva l’uso di parole giuste.
5) Devo dire che a mano a mano che leggo Giovanna Fileccia, io studio la sua complessità sebbene mi ritenga un tipo complicato. Però sono convinto che se non fossi come sono, non riuscirei a comprenderla così come la commento. Mi sta bene, allora, che io sia un tipo complicato e non complesso, convincendomi che l’Autrice è una persona sensibile e orgogliosa del suo intelletto. E anche che, ammessa l’inconsapevolezza, queste fiamme epistemologiche, implicano pure il coraggio. Il coraggio di fare, ma soprattutto di dire e divulgare. Giovanna Fileccia, dovrà chiedersi “cosa divulgo”? Ma è anche disposta ad auto-correggersi? No. Capisco che è da escludere, sebbene sia soprattutto buona in quanto molto intelligente, e perciò disponibile a fare parte, anche involontariamente, delle istituzioni di curatela che lottano per il successo dei talenti, dovessero farlo a spada tratta.
Il procedere per successi ed errori non c’entra, non è una questione del momento. Invece, i lettori che hanno approcciato “Sillabe nel Vento” si sono posti il problema dell’introspezione? Cioè, di farsi un’idea anche della persona, di volersela fare estrapolandola dai versi. In effetti, le condizioni iniziali per una configurazione emotiva, ci sono tutte, ma a sua volta bisogna sperare in questo tipo di ricerca, di approfondimento. L’affermazione di quest’ultima è concretamente la locuzione «possiamo fare a meno della religione perché ogni religione non è Dio; nel senso che una narrazione detta dieci volte resta una storia, se però si ripete un milione di volte, allora è una religione». Per cui, dove c’è inflazione non c’è sensibilità.
I fatti della politica odierna, per esempio, confermano questa verità che essendo vera è dunque una teoria, non si tratta di ipotesi. Sillabe nel Vento effettua una nemesi distribuita tra le cose dell’uomo” e le “cose della poetessa”. La conclusione naturale del ginepraio firmato Fileccia la poetessa, la scrittrice, l’epistemologa (in questo caso epistemologia è quello che ci passa per la testa), l’attrice, la critica letteraria eccetera eccetera, è stabilire fino a che punto il (suo) mondo è libero. Se intendiamo il libero arbitrio il riflesso della libertà “da” e la propriocezione della libertà “di”, allora intuiamo la personalità che palesa un carattere intrigante, com’è fortemente coinvolta dalle teorie che elogiano o esaltano la coerenza. Proprio nel senso di poco fa, che dove c’è inflazione non c’è sensibilità. In altre parole, secondo me, Giovanna Fileccia è una altruista e filantropa che trae l’umanesimo dalla sua personale esperienza indisponibile alle correzioni epistemologiche.
Perciò, non sono più ipotesi, si tratta solo di verità. Leggere e studiare, causa ai teorici l’attivazione dei neuroni a specchio che implica l’essere empatici nella percentuale che accende il cervello. È direttamente proporzionale: 1 neurone, boh! lasciamo perdere; dieci neuroni, sì interessante; cento neuroni, però, sono d’accordo; mille neuroni, toh! siamo quasi uguali. Tuttavia, come è facile comprendere, questi numeri sono arbitrari ma servono a rendere l’idea. Questo coacervo di predicati, è riferito ai molti paragrafi introspettivi e vagamente segreti della poetessa che (poetizza?) verseggia.
Siamo vuoti? Diciamo cosa non abbiamo? Siamo umili piuttosto che tronfi mitomani? Sentiamo il tocco del destino o è quello della morte? In generale, la mia opinione è che scrivere non elude ciò che siamo. Certo, possiamo anche riferirci ai desideri e alle utopie, ma per avere contezza è necessario esserci, avere partecipato l’esperienza empirica che lascia qualcosa dentro, oppure l’esperienza che ri-percorre e ri-pensa comparando epiloghi differenti. Ed è, in fin dei conti, ciò che illumina lo stile omni-funzionale di Sillabe nel Vento. L’intelligenza non è solo studio, dato che si può essere semplicemente eruditi. Il fatto, è che la lista di cose serie e intelligenti si inaugura e si arricchisce di immaginazione/ni.
6) La poesia è arte. È la storia-percezione di sé per chi la scrive, dato che non esistono poeti interessati a emulare gli epigoni della retorica. Questo è compito dei critici letterari, che dovranno acciuffare una realtà compatibile, a volte contradditoria spesso complementare e quasi mai agli antipodi – seriamente parlando – con il costrutto di quella intelligenza emotiva. Infatti, le emozioni esistono ma sono brevi percezioni interiori o brevi disquisizioni se non emergono dalla pletora comune fino a raggiungere l’incoronazione dei sentimenti. Proprio ciò che vuole fare la poesia… Ma mica ci riescono tutti!
Emozioni e sentimenti non sono la stessa cosa, esattamente come l’efficacia non è sinonimo di efficienza. Il problema è che è difficile dare una voce empirica ai sentimenti. Ne va del genere umano, ammesso e concesso che ci siano ancora motivi personali, politici e sociali che ne assicurino l’esistenza o molto meglio, il contatto. I sentimenti si possono toccare? Certo che sì, metti una mano sul petto di un cucciolo e distingui se il cuore batte d’amore o di paura, forse di odio. Perché un animale? Perché loro non possono mentire e se li ami, ti amano, se li rispetti, fanno di tutto per farsi capire, perché sono i sentimenti a renderli espressivi, mica le emozioni. Queste ultime le vivono segretamente, per i fatti loro. Certo è che non parlano… Ah! Se lo facessero gli uomini li tradurrebbero in schiavitù, li costringerebbero a lavorare ma forse, su un altro pianeta, per esempio sul fantastico Pandora di Avatar, gli animali avrebbero gli scribi specializzati a tradurre il linguaggio del corpo in parole (poetiche ovviamente).
Nel suo saggio, Giovanna Fileccia saggio cita Sandro Penna e Vincenzo Caldarelli perché dal suo punto di vista di poetessa, i due poeti hanno versificato per compensare i vuoti dell’anima, per riempirli di parole e di significati. Allora, dovremmo chiederci cosa è successo a questi Sùperi per scrivere di desiderare “il dolce rumore della vita” o desiderare di volare nella libertà e nello spazio di un “gabbiano”?
Invero, per descrivere la metafora della libertà, io penso all’Aquila; vederla volare è un’idea ben precisa di libertà, così come vedere galoppare un cavallo, uno stallone, è sinonimo di libertà che ha messo i muscoli. E ad amare sia il rapace che il quadrupede, l’uomo è ricambiato nell’affetto, fino a morire per lui. Non c’è religione che tenga di fronte a questa libertà dell’amore vero che coincide con la morte. Né l’Aquila, né il Gabbiano, né il Cavallo hanno paura di morire per amore. Una semplice Quaglia sfida le ruote del trattore che stanno per schiacciare le uova della sua nidiata. Ecco! questi sono esempi di come si vive naturalmente una vita poetica. Siamo capaci di farlo? Sono certo che il genere umano è totalmente incapace di assumere la morte anche come una necessità e il loro essere amati dall’uomo per trasfigurare l’emozione in sentimento. L’amore, il rispetto, la cura dell’uomo nei confronti dell’animale lo trasfigura fino a fargli conoscere, percepire propriocettivamente il sentimento. Amore, morte, caso, necessità, sono tutte astrazioni potenzialmente candidate ad elevarsi ad entità polivalenti e polifunzionali che l’uomo ha circoscritto nei significati ed espresso in forme retoriche. Ma l’uomo non sa dire nulla della purezza del suo genere, l’ha persa da secoli, da quando fa le guerre, da quando unisce potere e violenza e denaro a eccellenza.
Perché dico questo? Il fatto, è che il poeta non può dedicarsi all’astrazione, cosa che invece, può facilmente fare il pittore astrattista, dato che l’osservatore decide da solo cosa c’è da capire. Il pubblico guarda l’astratto e quindi decide, d’istinto. Non è il cubismo, non è la geometria di kandisky, non è la perfezione di Monet. L’astratto è caos ed è da questa entropia di colori che si fa emergere dalla nube di materia, “un senso” e “non il senso”. L’identificazione-agnizione è arbitrale, la connessione è ogni volta una percezione differente da osservatore a osservatore. Se poi il pubblico decide di condividere l’interpretazione del critico d’arte, per carità “nulla questio“. Eppure, di fronte a un disegno astratto possiamo decidere liberamente cosa NON è poesia. Una vita vissuta poeticamente, che incarni nella immanenza forme quotidiane di purezza e di libertà, d’accordo con le citazioni che nel saggio esprimono esattamente i desideri diversi dalla quotidianità, non esiste. Dentro una camera da letto? Forse. Dopo una passeggiata tra i campi di sgrano sbrillettanti di Karol King? Forse. Dopo una preghiera ripetuta a memoria un miliardo di volte sempre uguale? Ma quando mai! Questa è suggestione! Dopo una malattia?? Dopo; Prima; Durante… Nel mito c’è anche questo, ma nessuno è uguale a Gesù o a Pan che sono le stesse persone con gli stessi superpoteri: l’energia della natura fa miracoli. La natura, la Terra, l’”Anima Mundi” di Gaia, infatti, sogna, è un pensiero libero assoluto e riuscire a pensarlo contemporaneamente trasfigura fino all’estasi. Ci vuole del tempo e sensibilità, non ci vuole una morale, questa è tra le righe di chi vuole poetarla. «Non è necessario avere una religione per avere una morale, perché se non si riesce a distinguere il bene dal male, quella che manca è la sensibilità, non la religione» (di Margherita Hack). Non ci vuole un algoritmo, bensì sono le compagini sociali e i sentimenti che esse suscitano che permettono di amalgamarsi fino a scegliere e capire chi è un poeta, uno scrittore, un vero artista, un vero “sapiens” oppure no. L’artista ricambia l’affetto del pubblico e questa specialità non è di nessun prete, neanche di un Papa che per definizione ama la Bibbia, l’islamico il Corano, il buddista il Tripitaka, e certi fanatici Ron Hubbard lo scientologo. Ma, eccetera eccetera eccetera, per questo non siamo liberi e intelligenti come invece vogliono farci credere”.
Palermo 29/07/2025
Marcello Scurria
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